Gara nervosa (in serie C...) e saltano i nervi, allenatore minaccia "Ti ammazzo" il trentino Andrea Coali
di Nicola Baldo
Una frase: “ti ammazzo”. Ripetuta due volte di fila. Dritta negli occhi. Già questa è una frase che nella quotidianità non andrebbe detta mai, figuriamoci poi se a pronunciarla è stato un allenatore verso un avversario. E poco conta che sia stata pronunciata in un concitato e nervosissimo finale di partita.
Al centro di questo increscioso fatto c'è un giocatore trentino, il centrale Andrea Coali. Cresciuto nel vivaio della Trentino Volley, ha poi militato in SuperLega con le maglie di Verona e San Giustino. Ormai da qualche anno ha optato più per la carriera universitaria che per quella pallavolistica, ecco allora che ora il lunghissimo centrale di Gardolo gioca in serie C lombarda con la squadra dell'ateneo milanese in cui studia.
Sabato il fattaccio: la partita si innervosisce, volano cartellini, un compagno (sbagliando) supera la rete e va di la, saltano i nervi, la squadra di casa vince a tavolino visto che il giocatore è stato espulso e la squadra di Coali era appena in sei giocatori ed, alla fine, scoppia il parapiglia. Con tanto di questa frase, “ti ammazzo”, pronunciata dall'allenatore della squadra di casa a Coali.
Ed è proprio l'ex posto-3 della Diatec giovanile che racconta, sulla sua pagina Facebook, l'accaduto.
Ecco di seguito riportata la versione del centrale trentino.
Gioco a pallavolo da praticamente tutta la mia vita. È uno sport che ho sempre considerato diverso, ma soprattutto caratterizzato da rispetto e da un ambiente, tutto sommato, sano. Nel corso di questa stagione sto giocando nella serie C lombarda per la squadra della mia università. Ieri sera è successo qualcosa che mi ha colpito molto, e vorrei raccontarvelo. Siamo andati in trasferta a Lipomo, paesino nella provincia di Como. Eravamo solo in sette, a causa di diverse problematiche personali. Gli altri, ovviamente, a pieno organico. In una situazione di emergenza, senza alcuna riserva, non ci siamo però persi d’animo. Risultato parziale: due set a uno per noi. È nel quarto set che succede ciò che voglio raccontarvi. Potete immaginare già il nervosismo che si respirava in campo. Da una parte, una squadra di “scappati di casa” che in sette si trova davanti nel punteggio e nel computo dei set. Dall’altra, una squadra nel pieno delle sue potenzialità che si trova, tuttavia, in difficoltà. Da quest’ultima vola qualche parola scomoda, forse un po’ troppo, nei confronti di alcuni miei compagni. Uno di questi, toccato sul personale, non ci vede più e, dopo qualche battibecco, oltrepassa la rete. La scena si chiude qua, con tante parole che volano, ma anche con un’espulsione e squalifica diretta del mio compagno. Che, come avrete intuito, significa partita persa a tavolino e una conseguente bagarre tra giocatori, arbitro e squadre. Scene che non vorresti vedere o vivere, ma che ogni tanto, complice l’agonismo, capitano. Il mio compagno ha esagerato nella reazione, gli altri hanno giocato col nervosismo e con le parole regalando insulti gratuiti, l’arbitro ha applicato il regolamento e la partita si è chiusa così.
Ma non è su questo che voglio soffermarmi.
L’episodio che mi ha spinto a scrivere questo (lungo) post riguarda me e l’allenatore dell’altra squadra. Una volta fischiata la fine della partita, ho rivolto dei saluti e dei complimenti ironici, dato l’epilogo. Mai niente di offensivo o di personale, chi mi conosce sa che persona sono. E soprattutto niente di violento. Faccio per andare negli spogliatoi, ma vedo che alcuni compagni sono ancora a battibeccare. Allora mi fermo e torno indietro. L’allenatore avversario, mi prende per la vita e mi invita ad abbandonare il campo. Io allora, in maniera del tutto spontanea e, ci tengo a sottolinearlo, per nulla violenta e minacciosa, lo “abbraccio” cingendogli la spalla con la mano e gli comunico la mia volontà di rimanere in campo. Lui si ferma, mi guarda, e mi dice: “Se non togli la mano dalla mia spalla, IO TI AMMAZZO”. Sgomento, lo guardo e gli chiedo: “Scusami?”. Lui, in tutta risposta, mi guarda negli occhi e con una tranquillità disarmante mi ripete: “TI AMMAZZO”. A quel punto mi stacco e gli chiedo cortesemente di dirmi il suo nome e cognome, perché una cosa del genere per me non è tollerabile. Lui mi ride in faccia, mi stringe la mano e mi dice “Grazie e arrivederci”. Decido quindi di andare in spogliatoio, stupefatto. Lo aspetto, una decina di minuti dopo, per capire se perlomeno si fosse reso conto delle cose dette. Mi aspettavo, come minimo, delle scuse. E per me sarebbe finita lì. Invece, si presenta, mi guarda, e non ha nemmeno il coraggio di fermarsi a parlare con me. Ci tengo a sottolinearlo: a parlare. Nel mentre io ho spiegato ai tifosi presenti sugli spalti che cosa fosse successo, e, alcuni di loro, hanno anche avuto il cuore di dirmi che sono “cose che si dicono in preda al nervosismo”.
Ora, vorrei avviare una breve riflessione. Ne ho viste tantissime sui campi da gioco. Ho calcato parquet dalla serie C alla serie A1 e sono il primo a sostenere la forza dell’agonismo, a giustificare eccessi (verbali) che possono scaturire da una forte carica agonistica. Ma non tollero una frase del genere. Ritengo personalmente che le parole abbiano una valenza fondamentale, particolarmente oggi dove la retorica dell’odio e dell’insulto gratuito la fanno da padrone. Sentirsi dire con una freddezza disarmante una frase come “Ti ammazzo”, ripetuta ben due volte occhi negli occhi, è un qualcosa che non deve esistere. Né su un campo da pallavolo, né nella vita in generale. Chi mi conosce sa che non ho mai alzato un dito contro nessuno, né verbalmente né fisicamente. E il fatto che basti una stupida partita di serie C di pallavolo a sdoganare certi atteggiamenti e un determinato tipo di linguaggio, mi fa venire i brividi. Forse molti avranno anche vissuto situazioni peggiori su un campo da gioco, ma per me è stata una prima (e spero vivamente, ultima) volta. In anni e anni di agonismo, mai ero arrivato a sentire delle frasi del genere. E non voglio sentirle mai più, soprattutto nel contesto pallavolistico. E la cosa peggiore è stata non ricevere nemmeno una scusa o sentire addirittura giustificazioni da parte del pubblico di casa. Magari sto esagerando, ma lo ripeto chiaro e tondo qui: le parole hanno un loro peso e un loro significato ben preciso. Come sportivi (#ilmiosportèdifferente era l’hashtag giusto?), come adulti, ma soprattutto come persone, abbiamo il dovere di pesarle e di non abusarne. Ho perso un amico, ammazzato da un pazzo terrorista una settimana fa a Strasburgo. Sentirmi minacciato di morte da un allenatore nervoso perché la sua squadra stava perdendo contro sette disperati non deve esistere. Si può essere nervosi quanto si vuole, agitati, ma ci sono dei limiti che non vanno oltrepassati. E questo è proprio uno di quelli.
Commenti